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CURIOSITA

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La Strada dei Mandrioli: impressioni d'autore


La Strada dei Mandrioli: impressioni d'autore

La rotabile transappenninica “Tosco-Romagnola” fu aperta nella tarda estate del 1882 met­tendo finalmente in comunicazione, attraverso il Passo dei Madrioli, il Casentino e la Toscana con Bagno di Romagna e l'alta Valle del Savio.
I lavori erano iniziati nel 1868, e dieci anni dopo erano stati realizzati i tratti da Bagno al Pas­so dei Mandrioli (km 11,31) e da Bibbiena a Badia Prataglia (km.11,83), finanziati l’uno dalla Provincia di Firenze, l’altro da quella di Arezzo. Rimanevano 5 km, a cui si stava lavorando nell'agosto 1880 quando lo scrittore Olindo Guerrini (1854 -1916), giunto a Badia Prata­glia durante un viag­gio dal Falterona al Fumaiolo, do­vette dormire sui tavoli di un'osteria perché tutte le camere erano occupate dagli operai impiegati in quegli ultimi lavori.
L’apertura al traffico della “Tosco-Romagnola” tolse letteralmente dalla segregazione l’alta valle del Savio che non aveva una strada carrozzabile che congiungesse i ter­ritori montani delle Province di Forlì, Arezzo e Firenze, contigui ma poco comunicanti.
Ba­gno di Romagna infatti era unito al resto della Toscana al di la dell'Appennino solo con l'im­pervia mulattiera di Passo Serra, mentre un tratturo “vagante per il letto del Savio” ren­deva ardue le comunicazioni con Sarsina e la pianura romagnola; per giungere poi dalla sta­zione ferroviaria più vicina - quella di Forlì - la diligenza impiegava 6 ore lungo i 66 km della provinciale della Valle del Bidente ed il Passo del Carnaio.
La nuova viabilità - completata nell'agosto 1899 con l'inaugurazione dell'altra “carrozza­bile interprovinciale tosco romagnola” lungo la Valle del Savio - porta regolari collegamenti e nuove prospettive economiche e sociali. Dal 1901 un servizio di posta con diligenza unisce giornalmente Bagno a Cesena (57 km), sostituito qualche anno dopo dalla corriera della “Società Automobilistica Valle del Savio”. Nel versante toscano, da Arezzo è attivo fin dal 1882 un servizio di diligenza fino a Bibbie­na, da dove un postale reca giornalmente a Bagno; poi, con l'entrata in funzione della tratta ferro­viaria Arezzo-Bibbiena-Stia (1888), dalla stazione di Bibbiena, in coincidenza coi treni da Arezzo, si giunge a Bagno in 4 ore con una vettura della posta a cavalli; nel gennaio 1913 inizia il servizio automobilistico Bagno-Bibbiena, e dal 1917 le due corse giornaliere della SITA tra Firenze e Bagno di Roma­gna.
La Tosco-romagnola - che con audaci tagli in roccia e ampi serpeggiamenti vince un forte dislivello (664 metri) con andamento breve e pendenze costanti intorno al 5-7% - venne percepi­ta come un'ardita impresa, un “prodigio natu­rale e artificiale”: un capolavoro ingegneristico - “Cer­to è che per quei monti e per quei scogli sconci ed erti, pare impossibile potersi costrui­re una strada ruotabile” si scriveva - e paesaggistico: “una delle più belle d’Italia” secon­do alcuni, per altri “forse anche troppo di lusso per una strada di montagna”.
La progettò Alcide Boschi (1839-1892), ingegnere distrettuale del Circondario di Rocca San Casciano, che ebbe pure il compito di curare ed attuare il progetto definitivo della ruo­tabile interprovinciale tra Bagno e Sarsina, naturale proseguimento della Strada dei Man­drioli ver­so la piana romagnola.
Per dimostrar gratitudine all'ingegner Boschi che tanto fece per la rete stradale dell’alto Savio, il Co­mune di Bagno di Romagna deliberò di erigergli due lapidi. Che però non vennero mai com­missionate. Nel 1908 - 16° anniversario della sua drammatica morte - un gruppo di am­miratori pose allora sul­la cantoniera del “Raggio”, lungo i Mandrioli, questa lapide: “Bagno di Romagna 16 luglio 1908./ Nato a Pisa il 2 settembre 1839 / morto il 16 luglio 1892, / il Cav. Ing. Alcide Boschi / co­struiva, / monumento imperituro / della sua sapienza artistica, / questa strada dei Man­drioli”.
La Tosco-romagnola è infatti spettacolare e offre scenari differenti a seconda del versante che si percorre, dove pure è diverso l’inserimento nel paesaggio: in quello toscano sale, orientandosi sul fiume Archiano, tra il verde di una natura domestica che asseconda con graduale educazione al pendio; in quello roma­gnolo l'opera dell'uomo invece si affida risolutamente a se stessa: salendo da Bagno s’inerpica, con una spetta­colarità ecla­tante, per 11 km nel ripido versante nord, incisa sulla roccia di pendici scoscese e dipanan­dosi poco alla volta, senza strappi, con stretti tor­nanti (27) e brevi rettilinei, su un pae­saggio orri­do e sugge­stivo - un intrico di rilievi, di pareti rocciose sorgenti da vallecole e da burroni tortuosi e profondi - dove pareti nude, formate da potenti banchi di arenaria e marne, pla­smano strato su strato grandiosi gradoni, orizzontali come le Scalac­ce o verticali come le Tavole di Mosè, che erompono dal verde ed intridono di grigio il paesag­gio, dando alla valle del Fosso del Capanno “l’aspetto di un immenso anfiteatro devastato da forze ti­taniche, la cui platea sembra sprofondata e frastagliata in nu­merosi calanchi”, come scrisse un viaggia­tore nei primi anni Trenta.
In quegli anni la strada dei Mandrioli, “angusta, incomoda e polverosa”, passò allo Stato  - fu chiamata SS. 71 “Umbro Casentinese” - e l'AAS (antenata dell'ANAS) vi apportò correzioni e varianti per smussare curve, allargare ed asfaltare il piano stradale, vi costruì “opere d'arte” (ponti, cunette, muri di sostegno) ed una nuova cantoniera.
Oggi, travolto dal fragore della E/45, quello che fu un valico di primaria importanza nei col­legamenti tra Romagna e Toscana, è ridotto - nel tratto romagnolo - a modesta Provinciale (SP. 142) e la rossa cantoniera è un rudere pericolante. Il paesaggio che attraversa invece è in pieno rigoglio: racchiuso tra l'area wilder­ness “Fosso del Capanno” ed il “Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi”, è parte com­plementare di quel grandioso scenario forestale che si estende su questa parte di Appennino.
Rimangono di quel tempo che non è più il nostro le impressioni di quanti ne hanno raccon­tato e raffigurato, imprimendoli nell'immaginario, gli incanti topografici, che per il viaggia­tore attento e curioso costituiscono un ineludibile invito ad una rilettura itinerante, un viaggio nel viaggio godibile e suggestivo.
Come la pagina in cui Manara Valgimigli (1876-1965) racconta con straordinaria efficacia evocatrice il suo primo viaggio, grande e memorabile, lungo i Mandrioli, compiuto il 6 di­cembre 1885 quando dovette lasciare col padre Antonio e la madre So­fia Baldelli, la natia San Piero in Bagno dove aveva trascorso gli anni felici della fanciullez­za: “Ricordo perfettamente la mattina che partimmo e il lunghissimo viaggio. Eravamo par­titi con la vettura della posta: ci stavamo noi tre, raggomitolati e infagottati sotto il mantice alzato; il vetturale o postino a cassetta, col sacco della posta e altre cose nostre. Ho sempre avuto davanti agli occhi, spettacolo mai veduto prima, qual gran mare di nuvole grigie e bianche sopra cui ci trovammo appena arrivati al Valico dei Mandrioli, e il sole era già alto”.
In questo grandioso e corrusco paesaggio dove la natura aveva un volto primigenio, telluri­co, una sensazione di solitudine accompagnava di solito il viaggiatore. Un senti­mento che può esaltare od opprimere.
Il letterato romagnolo Giacinto Ricci Signorini (1861-1893) vi ambientò il finale del raccont­o Un fiu­micel che nasce in Falterona, di una malinconia senza scampo.
Il protagonista, che da Meldola si sta dirigendo al Falterona, arriva a Bagno in una cupa vi­gilia di Pasqua e s’in­cammina verso i Mandrioli sotto un cielo plumbeo, senza incontrare nessuno. “Il vento taceva: su le coste i faggi spogliati pareva non avessero più lamenti per com­piangere la loro nudità vergognosa: qua e là muc­chi di neve sporca, coperta da foglie sec­che. Non una casa: solo qualche cascina, chiusa, ab­bandonata, come se gli abitanti ne fosse­ro partiti, per sempre (…). Non bisbiglio di uccelli, non chiacchierio di acqua corrente. Solo talvolta il silenzio era rotto dal rapido fruscio di un sasso, che cadendo dall’alto strisciava sulla roccia disciolta dai geli e trascinava in basso un mucchietto di polvere e di foglie. E al­lora mi colse quell’affanno, quella oppressura, quella stanchezza dell’anima, indefinita, che le parole non possono esprimere, ma che la mente ri­corda con terrore e con desiderio”. Di­speratamente solo, stanco, sfinito, è preso da quell’an­goscia terribile “che nelle altezze, nel­la solitudine vi afferra alla gola e vi fa piangere come un bambino. Chi l’ha provata non può dimenticarla mai”.
Il racconto uscì in vari numeri de “Il Cittadino” di Cesena, tra maggio e luglio del 1893: il 24 giugno di quell’anno, in quella città ove insegnava, nella sua abitazione, in uno dei suoi giorni cupi, Ricci Signorini - personalità saturnina, soverchiata dal tempo e dalla morte - s’era tolto la vita.

Ben altra impressione provò Alfredo Oriani (1852-1909) nell'esaltante ascesa dei Man­drioli, compiuta durante il suo celebre viaggio in bicicletta di due settimane - da Faenza a Bagno di Romagna e, per i Mandrioli, ad Arezzo, Sie­na, Pisa, Lucca, Bologna e infine a Casola - rac­contato in quel classico del cicloturi­smo che è  Sul pedale (1902).
E’ ormai il mezzogiorno del 2 agosto 1897 quando il poderoso ciclista s’accinge ad affrontar­e la salita “sotto un sole africano” che lo costringe spesso a piedi, bicicletta alla mano. Persa di vista la diligenza per Bibbiena che lo precedeva di un chilometro, procede a fatica. “A mano a mano la luce sembra purificarsi e il silenzio diventa maestoso: appaiono le prime rocce tagliate nei fianchi della strada, poi boschi di abeti ed altre roccie e prati sen­za una casa: appena qua e là, lontano, un fumo diafano ed azzurrino sale da una carbonaia, non un rintocco di campanaccio, non un muggito di vacca. E' l'ora del meriggio accecante ed inerte nella propria vampa. Solamente un falco disegna al di sopra dei monti larghe e pi­gre ruote colle ali che sembrano incendiarsi alle punte, ma il suo stridore sottile si perde nel sereno.(...) La catena dell’Appennino adesso appare grandiosamente da ogni parte, creste nude o chiomate, fianchi scoscesi e deformi, che si ur­tano rientrando l’uno nell’altro quasi in un tumulto di tempesta subitamente pietrificata. L'uomo non vi si rivela che per la strada, senza uomini di quest'ora. Finalmente non mi ricordo più di nulla (...) sono libero, senza casa, senza scopo, senza vanità. (...) Come tutto è bello! E io penso alla inutilità della nostra presenza nel mondo, che non vi aggiunge una bellezza e non vi scopre un secreto”.

Agli inizi del Novecento lungo questo scenario suggestivo, immortalato dai fotografi di Ali­nari e descritto nei baedeker, si svolgeva una “comoda passeggiata, tutta per la via maestra”: la più frequentata da quanti in estate si recavano alle terme di Bagno, sempre più numerosi grazie a tale strada. E tappa obbligata prima del valico (1.173 slm) - anche per chi, con vetture, andava a visitare Badia Prataglia, La Verna e Camaldoli, ormai centri internazionali di villeggiatura - era l'o­steria della cantoniera del “Raggio”, “largo edifizio costrutto solidamente contro le intempe­rie più turbinose”, come scrisse Ricci Signorini. Qui - recitava la réclame - si poteva gustare “marsala e buon vino, fare una saporitissima merenda” godendo “il paesaggio orrido”, e - massimo conforto per il viaggiatore - dissetarsi ad una sorgente freschissima: “una bocca di colubrina e un getto impetuoso, che si rompe dentro un abbeveratoio largo e lungo come una tinozza”, ove l'accaldato Oriani voleva get­tarsi, impedito dall'arrivo di “cinque o sei signorine vestite di giallo di bianco di rosso, tutta una festa di colori e di risa”.

Sulla fine degli anni Venti, tra quanti erano soliti villeggiare nella cantoniera del “Raggio” c'era il pittore forlivese Giovanni Marchini (1877-1946), “l'ultimo dei Mac­chiaioli”.
Nell'alta Valle del Savio aveva un'amicizia di lunga data con il sampierano Orazio Spighi (1889 -1950): un “genialoide” - secondo Spallicci -, pittore, poeta, collaboratore de “Il Plaustro” e dal novembre 1923 al marzo '24 primo sindaco fascista di Bagno di Romagna. Si erano co­nosciuti nei primi anni del secolo a Forlì, al caffè Prati ove - racconta Spighi in un articolo del '23 - facevano “cenacolo e bohéme” giovani e sicure promesse della pittura come, ap­punto, Marchini “eterno bambinone, tanto rassomigliante nell'aspetto al Segantini”, Pietro Angelini “dal cappotto a pipistrello”, Pio Rossi “sobrio e fine disegnatore”, Amleto Monte­vecchi “vera stoffa d'artista, geniale quanto disordinato”; era della compagnia anche la “Bit­ta” Santolini invidiata modella di Domenico Baccarini, e talvolta pure Benito Mussolini - cappello floscio, giubba corta e “sempre in bolletta” - che ammirava ed elogiava “Il Cavallo Narratore” del barbuto Marchi­ni (1901).
Conoscenza più recente era quella con Umberto Console (1886-1969), un colto maestro ele­mentare palermitano trapiantato a San Piero in Bagno che dal 1926 aveva iniziato a collabo­rare con “Il Resto del Carlino” e con varie riviste.
I soggiorni estivi sui Mandrioli dell'ormai affermato pittore forlivese non sfuggono all' at­tento giornalista, che in un articolo sul “Corriere Adriatico” del 24 settembre del '29 racconta di una visita a Marchini, che - scrive - “da qualche anno viene con la sua famigliola a trascorrere due mesi” al Raggio, dove a contatto con la natura studia e rappresenta nelle tele il paesaggio circostante, consono “al suo senso d'arte”. L'amico pittore lo accompagna infatti fin dentro un fitto bosco d'abeti da cui, additando una lontana fila di muli carichi di balle di carbone che attraversa una radura, gli confida: “Questo è il quadro che sto preparando (...). Mi sono ispirato ad una scena di lavoro e di fatica fra le esuberanti bellezze della natura”.
Console - che su “Il Bosco” elencherà molte delle opere dipinte sui Mandrioli ed esposte nella primavera del '35 nel Palazzo della ex Posta di Forlì - anticipa anche una notizia: “Forse lo faremo cittadino onorario dei Mandrioli dove vuol mettere radice acquistando una casetta che diverrà il suo nido d'aquila”: infatti, sulla fine del '29 Marchini compra una casetta a qualche centinaio di metri dalla cantoniera del “Rag­gio”, in vocabolo “Tavole di Mosè” (1.100 slm), sul lato a strapiombo della strada, ove ave­va abitato la famiglia di una guardia comunale che vigilava sulla “Macchia grossa dell'Alpe”.
La “Casetta del Raggio” - ingrandita con altre stanze ed un lembo di terra, aggraziata da una “loggetta istoriata” ed un cancello, detto “la soglia della pace” - divenne suo rifugio, ed il territorio circostante, ove scorreva la vita di contadini, carbonai, pastori e cantonieri, fonte di ispirazione. Sulla facciata collocò un'iscrizione tratta dalla Vita di Benvenuto Cellini che nel 1554 aveva ammirato gli stessi incanti del paesaggio durante una “gita” a Bagno; e di lato, scrisse, con orgoglio, a grandi caratteri: “Rifugio alpestre del pittore Giovanni Marchini di Forlì”.
Il “rifugio”, dove egli “soggiornò, dipinse e so­gnò, nella serenità dei domestici affetti” - come si legge nella lapide apposta dai familiari - e attorno a cui aleggia per sempre “lo spirito acceso dal francescano pae­saggio”, è rimasto nella memoria della gente come “La casa del pittore”.
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Il testo di G. Marcuccini è tratto da: Un pittore in Appennino. Giovanni Marchini (1877 – 1946). La strada dei Mandrioli e il suo paesaggio. A cura di O. Piraccini. Catalogo della mostra 2008 tenuta a Palazzo del Capitano di Bagno di Romagna. Cesena, Litografia Stampare 2008, pp. 85-89.
Sun, 27 Mar 2022 10:38:59 +0000